The unraveller of angels degli Attrition

Sulla cresta della modernità

The unraveller of angels degli Attrition

Ancora moderni dopo trent’anni di attività

Attrition - The unraveller of angels

 Attrition è una band inglese attiva da più di un trentennio nella scena elettro-dark e sperimentale. Dal lontano 1980, anno in cui Martin Bowes ne creò a Coventry la componente base, ha prodotto circa una trentina di album, di cui la metà in studio, cavalcando sempre l’onda della modernità e divenendo più band di riferimento che di continuazione.

Musica elettronica e sperimentale, quella degli Attrition. L’ultimo lavoro è The unraveller of angels, che propone una commistione di suoni ambient e dark, insinuanti e drammatici, quasi da colonna sonora per una ghost story. Gli ambienti tenebrosi permeano l’intero album con poche eccezioni, l’elettronica “classica” si fonde e confonde con quella più industrial.

Ritmica spesso incalzante e compulsiva, ma non sempre. A volte si sfiora l’istanza minimalista della ripetizione incondizionata, che di frequente sconfina nella claustrofobia di un suono che non si sposta più dalla mattonella sulla quale ha posato i piedi, come se non volesse uscire dallo sgabuzzino delle scope. Non per paura, ma per la necessità di cercare e trovare nella ricorsività la scintilla creatrice delle sensazioni, minacciose e indefinite, utili al raggiungimento delle emozioni ripiegate nel profondo dell’animo umano.

Ospiti di assoluta rilevanza, come Matt Howden, Annie Hogan, Erica Mulkey (Unwoman) portano alla creazione di un disco ricercato nei suoi dettagli; grande il lavoro di postproduzione che pur deve spaziare in un ambito ristretto di competenze.

La voce maschile (Bowes) è quasi sempre sussurrata, atonale, sostenuta dai cori femminili che ne ispessiscono la presenza, e contribuisce alla creazione dell’ambiente di riferimento: da quella “off” di The Unraveller a quella evocativa di Snakepit. In One horse rider quella maschile annuncia, quella femminile risponde dal suo spazio oscuro e sospirante. In Histrionic! la voce è quasi la duplicazione del violino etereo e spooky, si fa lamentosa quasi da musica elettrocolta e a tratti operistica, segno tangibile di una tessitura complessa.

Il basso tende alla continuità o alla nota ripetuta incessantemente, ma questo è tipico e necessario nell’istanza ipnotico-drammatica. Così in Narcissist è minimale e ricorsivo, con brevi riff in loop, supportato da una massa pseudosinfonica che si evolve in crescendo per tornare puntualmente alle movenze iniziali.

Una continua altalena di emozioni. In Karma mechanic il basso contribuisce invece alla creazione di una serie di episodi ricorrenti, minimali, quasi da soundtrack di una fuga, o di una missione impossibile.

A spruzzare un leggero sapore neoclassico concorre poi il piano acustico (almeno nelle intenzioni) di The Unraveller, aereo e spaziale, e di Hollow latitudes, dove con gli archi, anch’essi molto classici, sinergicamente crea i tratti più malinconici e cupi dell’intero lavoro.

Talvolta compare una chitarra, distorta, come in Narcissist, che però ha unicamente ruolo di bridge per creare uno stacco alla ritmica incalzante; finita la sua funzione, tutto torna al traffico frenetico di una tangenziale in orario di deflusso massivo.

Le ambientazioni, come detto, oscillano fra il gotico e il drammatico, trascolorando in tutte le gradazioni intermedie; dai suoni cigolanti e tetri di Suicide engineer ai melismi claustrofobici di The casual agent, e ancora ai suoni elettroclassici e industriali di The internal narrator, dove le locazioni spettrali generano presenze fantasmagoriche osmoticamente confuse.

Tutto questo senza mai ingenerare sensazioni di noia: e se dalla ricorsività si riesce a non scadere nella mera ripetizione, vuol dire che siamo davanti a un lavoro di grande talento.

 2013/7/12  Federico De Carli

_________________________________________________

Nuovo lavoro per l’eclettico quintetto scozzese

 Les Revenants di Mogwai

 Ma stavolta è una soundtrack

Mogwai - Les Revenants  A volte, in letteratura, alcuni autori affermano di scrivere per immagini, cioè di non seguire l’istinto, o la convenienza di un plot ben organizzato, ma piuttosto di rappresentarsi nella mente delle scene ipotetiche di un film, e quindi trasferirle sul testo scritto.

 Questa sembra essere anche la genesi dell’ultima fatica discografica dei Mogwai, che ha sorpreso critica e pubblico per la rottura con i precedenti lavori. Post-rock è l’etichetta che definisce la musica del chitarrista Stuart Braithwaite e del suo quintetto scozzese, almeno guardando a quanto finora proposto. Adesso Les Revenants è invece una vera e propria colonna sonora, nata con questo intento anche se generata da spirito diverso.

Il titolo prende le mosse dall’omonima serie televisiva francese del 2012 per la quale i produttori decisero di affidare le sonorità ai Mogwai, che però vennero forniti solo di un canovaccio strutturale e della possibilità di leggere qualche proto-script. Successivamente, le sceneggiature si sono adattate alle parti musicali e da esse sono partite per la creazione dei plot drammaturgici. Un procedimento inusuale che ha portato però alla formazione di un tracciato sonoro cucito su misura alle immagini.

 Diciamolo subito: Les Revenants, cioè I Ritornanti, tratta di persone morte che tornano in vita, o in pseudo-vita, senza saperne il perché. Ma non si tratta dell’ennesimo zombie movie: i Ritornanti non sono mossi da atavica necessità di procurarsi carne fresca quanto piuttosto dall’incompiutezza della loro precedente fase terrena. Caratteristiche sono dunque l’alterità di situazioni, la consapevolezza di un diverso stato di esistenza, la doppiezza, e un pizzico di rassegnazione. Non i film di Romero dunque, ma piuttosto il Lynch di Twin Peaks, oppure la serie Lost e la sua tensione irrisolta, o ancora, per dirla con un solo autore, la fantascienza ontologica di Philip Dick.

 Ecco dunque descritta la scintilla originatrice delle musiche di Les Revenants: c’era da descrivere l’essenzialità, la malinconia, la trascendenza: e i Mogwai l’hanno fatto. Atmosfere necessariamente un po’ cupe, ambigue, minimali. Si ha spesso l’impressione di trovarsi nelle orecchie la musica improvvisata in sala durante le proiezioni dei primi film muti. Non esiste la luce, non esiste il futuro, le atmosfere proposte dai synth sono fredde, tutti gli spigoli sembrano essere stati limati. La tensione non è quella del pericolo imminente; è quella dell’incertezza.

 Le intenzioni minimali si palesano a volte con alcuni accorgimenti, quali il suono di carillon, o di xilofono per bambini (Hungry face, This Messiah need watching, Fridge magic) che profonde melodie serene a meno di qualche nota fuori posto. Come nella nenia infantile nella colonna sonora di Profondo rosso: una sola nota alterata “guasta” tutto, producendo nell’ascoltatore l’increspatura della fronte e l’inarcamento del sopracciglio. Altre volte si ricorre al rumorismo proprio dell’elettronica, come in Portugal e il suo intro con bordone ronzante in avvicinamento, o come in This Messiah need watching con il suono di vetusto motore d’aereo. Ambiente invece fumoso e parigino in Eagle tax con la sua ritmica piovosa e suoni ondulati. Ritmica ancora allargata in Modern, dove la presenza di più melodie infonde una relativa (molto relativa) tranquillità. In alcuni episodi (Wizard motor, Kill Jester) è proprio la ritmica a generare l’incertezza richiesta dalla situazione, alternando il sapore tribale a una dinamica maggiormente incalzante.

 Abbiamo detto che i panorami sonori sono quasi sempre cupi, e la narrazione filmica lo impone. A volte è il registro grave a facilitare l’intento, come in Jaguar e il suo pianoforte basso con armonie situazionali, oppure la rarefazione delle melodie e la solitudine del pianoforte (The huts e le pennellate impressionistiche del piano quasi pentatonico, Kill Jester che introduce il cammino in una darkland) che propone, espone e conclude. Altre volte c’è un basso-bordone a incupire l’aria, altre ancora dei riff minimali e ricorsivi che ci riportano nei territori dell’elettronica.

 Però non mancano momenti di distensione. In Special N archi e arpeggio di sapore irish sostengono le voci che si duplicano e volano all’unisono, per divergere e poi tornare in volo serrato. Le giuste coordinate le forniscono basso e batteria, squadrati, “terreni”, fino all’assoluzione finale. In Whisky time l’aria si fa più respirabile e meno densa; le scelte armoniche sono garanti di una spazialità più allargata. A spazzare ulteriormente l’aria tetra ci pensa What are they doing in Heaven today?, unico brano cantato, cover di un gospel riproposto qui in chiave di ballad country-folk.

 Come dire: in fondo al tunnel si vede la luce. Ma speriamo non sia il treno.

 2013/05/06  Federico De Carli

Welcome Oblivion, album d’esordio per How to Destroy Angels

Nuovo gruppo per Trent Reznor

Welcome Oblivion, album d’esordio per How to Destroy Angels

Ma è solo una costola dei Nine Inch Nails?

Welcome_Oblivion

 Welcome Oblivion è il titolo del primo disco della nuova formazione composta da Trent Reznor, creatore dei Nine Inch Nails, con Mariqueen Maandig (moglie di Reznor) e Atticus Ross. Oltre, ovviamente, a una squadra di ingegneri del suono.

Questo lavoro segue due precedenti EP: How to Destroy Angels del 2010 e A Omen del 2012 con i quali il gruppo aveva incontrato i favori della critica. Alcuni singoli erano stati prodotti per diffusioni estemporanee sui circuiti online o per colonne sonore. Ora siamo davanti a un album propriamente detto, anche se la coesione tra i brani è spesso vaga; ma questo non è espressamente richiesto dal genere di appartenenza.

Riuscire infatti a definire un album di musica post-industrial, sperimentale-elettronica è sempre qualcosa di aleatorio, considerato anche l’eclettismo del fondatore del gruppo, polistrumentista, virtuoso “classico” fin da bambino. Sostanzialmente i tre elementi della band coprono gli ambiti di chitarre, bassi, synth e voci; al resto ci pensa l’elettronica e la post-produzione. Ma Reznor era già famoso per questo, in quanto abituato a comporre musica da solo (per quasi tutte le sue parti) in studio e formando successivamente un gruppo per l’esecuzione dal vivo.

E così sembra procedere anche l’anima dei How to Destroy Angels, considerando anche la comunicazione dello stesso Reznor, a poche ore di distanza dall’uscita del disco, nella quale annunciava di voler ricomporre il gruppo che più lo ha reso celebre nel panorama musicale, i Nine Inch Nails.

Per definire i contorni di questo lavoro possiamo pensare a una fotografia sfocata, che, per sua natura, contorni non ha. Ma non una fotografia venuta male, sbagliata; pensiamo a una fotografia volutamente sfocata, carica cioè di tutti i suoi significati simbolici e allegorici, come la visione subacquea a occhio nudo. Tutti gli spigoli vengono arrotondati al desiderio dell’orecchio, che in musica comanda. Ciò che colpisce maggiormente è il magnetismo che emanano alcune tracce, che attirano o spingono lontano da un punto non ben precisato dello spazio. Si oscilla dalla atmosfere di pericolo incombente, di minaccia, alla electro-ballad (Ice age) su una sorta di glockenspiel elettronico. E ancora l’ambito ipnotico di We fade away con il suo andamento fluttuante, la musica ellittico-circolare di The loop closes e la sua sovrapposizione di elementi, la ricorsività della litania o del mantra in Recursive self-improvement o Hallowed ground. Sopra a tutto, la massima cura sui suoni e una massiccia elaborazione della voce fino all’apice di Welcome Oblivion, dove la Maandig urla nel compressore digitale immersa nei suoi stessi riverberi.

Siamo davvero davanti a una costola dei Nine Inch Nails? Poiché i due progetti nascono con diverse intenzioni, in tempi diversi e con componenti diverse, l’impressione è che How to Destroy Angels proseguirà in una direzione del tutto autonoma. In fondo, i figli dello stesso padre non sempre si assomigliano, per fortuna. E qui ci sono tutti i presupposti per una crescita felice.

2013/06/20 Federico De Carli

Bounty di iamamiwhoami

Un lavoro all’insegna della crossmedialità


Bounty di iamamiwhoami


Progetto di sintesi per i precedenti lavori di Jonna Lee

 iamamiwhoami_bounty


In un’epoca fortemente votata alla multimedialità, ecco che arriva anche su formato fisico il lavoro della cantante svedese Jonna Lee e del suo progetto iamamiwhoami. Operazione crossmediale per eccellenza, il disco raccoglie il materiale sonoro che accompagna un più vasto intento audiovisivo. Soundtrack, si potrebbe dire, ma qui il significato è più ampio; soundtrack di videoclip, sarebbe più esatto.


E’ un lavoro nato da abile strategia artistico-commerciale, frutto della collaborazione con il produttore Claes Björklund. Riferisce Jonna Lee che per questa creazione prima è nata l’idea, la struttura fondante dell’operazione artistica, poi la sua realizzazione. La distribuzione dei video ha dunque preceduto l’uscita del supporto audio.


I filmati sono di pregevole fattura, tanto che la critica attenta li menzionò subito ai tempi della loro prima distribuzione. Molte le tematiche di fondo, impossibile descriverle tutte e soprattutto spesso è impossibile riferirsi in maniera dettagliata alla simbologia che sta dietro e davanti a esse. Tratti onirici, oppure visionari, dove non assolutamente criptici. Prendiamoli così, sinesteticamente avviluppati alla musica che fornisce loro l’emozione aggiuntiva che il puro simbolo può solo suggerire.


Nove le tracce di questo lavoro: una per ogni lettera della parola Bounty, più una doppia “U” e due tracce aggiuntive “; John” e “Clump”. I richiami sono quelli dell’electro-pop, sia per l’impianto strutturale sia per la strumentazione. I brani hanno avuto lunga gestazione, in quanto i video ai quali sono associati iniziano a essere distribuiti su Youtube dal marzo 2010 al luglio 2011.


Evidente dunque la mancanza di omogeneità fra le nove componenti, e non si potrebbe chiedere altrimenti. Se all’inizio in “B” era evidente la matrice nordica dell’electro-pop, successivamente – e qui vale l’ordine cronologico delle tracce – emergono altre panoramiche di maggior spessore. Da “O” e il suo intro suggestivo e inquietante che sbocca nel puro synth-pop, alla coppia “U-1” e “U-2”. La prima è particolarmente evocativa, rimandando alle musiche tradizionali nordiche, non solo scandinave ma anche gaelico-irlandesi, la seconda da lì parte e arriva sulle stesse sponde, trasfigurate in un ecosistema sintetico.


A seguire, “N” condensa il pop dei connazionali ABBA in una serie di episodi minimali e ricorrenti, forse a tratti incoerenti. “T” è caratterizzato da un maggiore melodismo rispetto agli altri brani, e la sua ritmica sottocutanea allontana dalla vista i reali intenti. I suoni gocciolano in “Y” e un rombo di motore incombente apre il percorso all’arrivo del cantato, quando poi la ritmica ritorna agli stilemi degli ’80 e degli ABBA.

I brani conclusivi, i più recenti dunque, oltre a essere caratterizzati da un titolo fuori dall’acronimo che titola il disco, sembrano appartenere a ambiti diversi. “; John” pare veramente essere soundtrack di videoclip, l’immagine si fa movimento che a sua volta si fa musica. Beat sintetici incalzanti incorniciano un quadro di pop-art. “Clump” sembra poi appartenere pienamente all’ambito industrial sempre meno pop, la ritmica si fa più rada e meno incisiva, i tappeti diventano minimali e la voce li sorvola, loop di onde quadre ci portano in territori pienamente elettronici.


Un disco che si presenta dunque come un viaggio immaginifico, una linea di confine fra l’ordinario e lo straordinario, tra il visibile e l’invisibile, della comunicazione osmotica e sinestetica tra diverse arti. Una linea di confine, non una barriera.


 2013/06/13 Federico De Carli

Kveikur dei Sigur Rós

Nuovo disco per la band dell’estrema periferia (d’Europa)

Kveikur dei Sigur Rós

Musica di ghiaccio e di lava: ma non è mai musica descrittiva

 Sigur Ros - Kveikur

Uscirà domani l’ultimo atteso lavoro dei Sigur Rós, con il titolo di Kveikur. La band islandese è così giunta all’ottavo disco a partire dal 1994, anno in cui Jónsi Birgisson, Ágúst Ævar Gunnarsson e Georg Hólm fondarono la band con quel nome che, tradotto, significa “Rosa della Vittoria”.

Gli esordi risultarono fortunati grazie all’interessamento nei loro confronti della connazionale Björk che aveva ascoltato un loro lavoro. Da allora il gruppo si inserì prepotentemente nel panorama musicale di quell’isola nell’estrema periferia d’Europa per giungere, con il secondo disco Ágætis byrjun, al successo internazionale.

I Sigur Rós hanno ben presto esportato le loro tipiche sonorità, fatte di ampi spazi acustici e temporali. Anzi, se non fosse per la ritmica pur spesso serrata, il tempo nei loro dischi sembrerebbe irrimediabilmente assente. Praterie di acusmi lunghissimi, linguaggio musicale spesso visionario aiutato da una formazione a dir poco eclettica. Se a prima vista si nota la presenza di chitarra tastiere e batteria, bisogna aggiungere che l’elettronica è parte preponderante del successo di questo gruppo.

Poi, la voce. Birgisson ha un registro da alto, quasi una voce bianca, femminea, angelica, e gioca a volteggiare su quei tappeti sconfinati in maniera mai omogenea. C’è tutto il sapore di ghiaccio e lava della terra natia in quel canto ancestrale, eppure non è mai musica descrittiva; anche se, si può notare, i titoli dei brani evidenzierebbero il contrario. “Zolfo”, “Ossidiana”, “Iceberg”, “Superficie”, “Tempesta” sono le traduzioni dei titoli delle prime tracce di Kveikur.

Grandi campiture sonore sulle quali pascolano situazioni bicordali o triadiche di una chitarra a volte suonata con l’archetto, giusto per avere un sustain tendente all’infinito. Note lunghe e tempi lunghissimi: rari sono i brani dei Sigur Rós che durino meno di sei minuti. Al punto che, quando una volta fu loro richiesta una partecipazione al David Letterman Show, ambitissimo talk show statunitense, i nostri rifiutarono l’ingaggio perché i tempi concessi assommavano a tre minuti, poi estesi a quattro. Troppo pochi per staccarsi in volo.

La vocazione alla psichedelia porta un substrato malinconico in parecchi dei pezzi di questo ultimo lavoro. La musica è fluttuante, ondeggiante, la rarefazione si fa spessore con il ricordo di viaggi onirici, personali, intimistici. I testi non aiutano: spesso sono criptici, oppure scritti in una pseudolingua, “hopelandic” o in islandese “vonlenska“, linguaggio inespressivo non portatore di significati, ma utilizzato solo per la giustapposizione di fonemi utili al raggiungimento dell’obiettivo. La voce vuole essere strumento musicale puro, il significato resta sepolto nel ghiaccio.

E’ frequente imbattersi nell’ascolto di quel che non ti aspetti, sia nella ritmica ma soprattutto nella melodia. Tutto è fuori dai canoni standard, la successione di suoni è puro volo libero, a volte tuffato nell’acqua ghiacciata, a volte in linea retta, verso l’alto. Se il percorso sembra troppo lineare, ecco che il rumorismo crea barriere che l’orecchio deve affrontare, e superare.

La parola chiave sembra essere emozione; dallo scongelamento di sensazioni ibernate da tempi remoti ai turbini di atmosfere dilatate, tutto concorre alla costruzione di visioni personali, isolate, assolute.

Difficile stabilire quali siano gli ingredienti di questa ricetta così particolare. La ritmica, si è detto, non è una manifestazione costante; a volte è corposa e pressante (Yfirbord, Kveikur), a volte rada e distaccata. Molto spesso è così distaccata da sembrare sorda, distante, come se fosse prodotta dietro il muro di un ambiente remoto (Brennisteinn, Isjaki).

I rumori: si va dai crepitii futuristi in (Brennisteinn, Stormur, Var) al basso utilizzato come noise generator (Brennisteinn, Kveikur) alle pennellate di rumore ruggente in Bláprádur.

La voce ha grande presenza scenica, difficile sarebbe farne a meno; spesso vola, sorvola e sorveglia (Hrafntinna), altre volte sfiora la polifonia (Isjaki) altre volte si moltiplica dalla scintilla originaria e esplode in volo come fuoco d’artificio (Rafstraumur). Gli ambienti descritti sono sempre diversi; pur rimanendo nelle atmosfere dilatate, a volte la sinergia con l’ambito orchestrale (Hrafntinna) rafforza il terreno sul quale poggia il cantato, altre volte un ritmica precisa fornisce un alibi rassicurante per uno sconfinamento nel pop-rock (Rafstraumur) di sapore U2.

Il pezzo finale (Var) è l’unico a rientrare nei quattro minuti televisivi: forse per questo è il brano più atipico, quello meno Sigur Rós, con il suo delicato incipit di piano leggero, quasi classico, al quale si sovrappongo ronzii e crepitii come a creare dei temi alternativi. Archi lunghissimi dal sapore di cornamuse fanno da bordone, tendendo all’infinito, eterni. E poco televisivi.

 16/06/2013 Federico De Carli

Cruise to destiny dei Tangerine Dream

Quando la longevità si fa cifra

Cruise to destiny dei Tangerine Dream

L’inattacabilità di una band intramontabile

 Tangerine Dream - Cruise to Destiny

Parlare di un gruppo che è in attività da diversi decenni è sempre impresa ardua. Cambiamenti epocali sono necessariamente intercorsi dal quel lontano 1967, anno in cui il gruppo venne fondato da Edgar Froese, membro storico e leader del gruppo musicale tedesco. Antesignano – come è facile intuire – di più d’un nuovo genere musicale, Tangerine Dream è più che altro un collettivo musicale, in quanto nel tempo i vari componenti (con l’eccezione del “socio fondatore”) si sono succeduti con alterne fortune.

Gli anni dell’origine li vedevano fautori della “nuova” musica elettronica extracolta degli anni settanta, soprattutto teutonica, nonché del cosiddetto Krautrock, di derivazione rock-progressive. Con l’arrivo degli anni ’80 sono invece stati considerati generatori di quella che di lì a poco si chiamerà new age e che in un certo senso ancora li vede protagonisti.

Tantissimo il materiale prodotto. Enumerare tutti i lavori dei Tangerine Dream fa perdere la testa: più semplice considerare che dall’inizio della carriera ne hanno pubblicati più di un centinaio, fra registrazioni in studio, registrazioni live e colonne sonore. Ciò non deve far credere però che venga a mancare la qualità e l’originalità.

L’ultima fatica uscita in questi giorni è Cruise to destiny. Non ci si può aspettare di ritrovare la band del passato, quella dei tempi di Stratosfear, dove tutto aveva corpo onirico, melodia, protostrutture ricorsive e qualche rimando classico (oltre alla presenza di soli quattro brani lunghi, come movimenti di una sinfonia). Qui siamo in territori diversi, vige l’esplorazione del’inespresso, c’è una grande creazione di ambienti, di stanze musicali limitrofe, di episodi.

I collegamenti più immediati sono quelli che portano all’elettronica degli anni ’80: l’intro electro-pop di The end of bondage che sfocia in estensioni orchestrali se pur con movimenti melodici che a volte appaiono empirici. Poi Three bikes in the sky, dove alla ritmica latineggiante e suoni alla Oldfield e Genesis si contrappone una melodia che si concede al melisma fino alla risoluzione e dissoluzione finale. Ancora: A wise fisherman’s nocturnal song tiene fede al titolo e rimanda al Guardiano del Faro, sa di acqua salmastra che gocciola da legni inumiditi. Oppure la ballad elettronica Moon river, che si concede al passato ipertecnicismo chitarristico fino alla lunghissima dissolvenza finale.

Non mancano però le ambientazioni più new age della musica cosmica propriamente detta. Le introduzioni evocative sono presenti in diversi brani: in Devotion il panorama è spaziale, dove tra sbuffi di gas sgorga una chitarra distorta. Simile processo in Too hot for my chinchilla, e poi in Hoël Dhat The Alchemist, dove dall’intro brumoso e pastorale si converge su una ritmica rada che annuncia un cantato. La cifra stilistica spesso si mantiene, ma sono le variazioni a risultare interessanti.

Diciamolo: è difficile mantenersi costanti in un arco di tempo così ampio come quello dell’attività dei Tangerine Dream. Ben pochi gruppi possono vantare una esistenza artistica così duratura; però, se pensiamo che il fulcro della produzione artistica ha sempre ruotato attorno alla figura di Edgar Froese, gioverà sapere che suo figlio Jerome è entrato da tempo nella formazione del gruppo, suonando peraltro la stessa strumentazione del padre (chitarra e sintetizzatori). Se un giorno dovessero spegnersi, i Tangerine Dream avranno già una resurrezione assicurata.

 11/06/2013 Federico De Carli

 

Random Access Memories dei Daft Punk

Da poco uscito l’ultimo lavoro del duo parigino

Random Access Memories dei Daft Punk

Grande attesa per il nuovo disco; ma non tutti i fan sono soddisfatti

Daft Punk - Random Access Memories

Dopo parecchi mesi di attenta campagna pubblicitaria esce finalmente Random Access Memories dei Daft Punk. In molti si erano interrogati sul significato di quel casco metallico, senza ulteriori scritte o commenti, che cartelloni pubblicitari e pagine di giornali specializzati mostravano periodicamente al pubblico curioso. I fan avevano riconosciuto in quell’elmetto futuristico il logo dei loro beniamini, e questo aveva contribuito a far crescere l’ansia dell’attesa. Una sola anticipazione era trapelata: il singolo Get lucky che impazzava nelle scalette radiofoniche.

Un brano programmatico quello scelto come pioniere in questa nuova creazione; non il migliore del disco, ma comunque atto a delineare la rotta che l’intero lavoro intendeva seguire. Diciamolo subito: c’è più disco/funky di quel che molti si aspettavano, e lo si intuisce proprio da questo brano; ma ciò non è necessariamente un demerito. Sembra di essere saltati indietro ai tempi degli Earth Wind & Fire. La voce in questo pezzo è naturale, solo in seguito entra un ritornello ricorrente che usa il vocoder, giusto per farci sentire un po’ a casa.

Stessa ambientazione funkeggiante si ritrova in parecchie altre tracce, che si alternano schizofrenicamente a quelle più elettroniche. Così nei brani The game of love, Give life back to music, o in Lose yourself to dance, nel quale un – forse – eccessivo uso del clapping ci riporta nell’ambito disco dei verdeggianti anni ’70. La bonus track Horizon, per il solo mercato nipponico si muove in una atipica dimensione folk/acustica, un po’ da ballad dell’hard rock. Fino all’estremo di Fragments of time, chiaro intento disco/funky/pop che ricorda i Toto meno convincenti, dove il bridge cerca di ritrovare le sonorità elettroniche ma comunque con istanze melodiche.

L’altra faccia della medaglia sono le ambientazioni leggermente più elettroniche. Si parte da Giorgio by Moroder, che inizia con una autointervista del pioniere dell’elettronica-pop; la struttura è portata de una sequenza accordale di un sequencer, e il finale riporta le sonorità di Mike Oldfield e Jean Michel Jarre. Within ha un’intro ambientale con molto rooming, una ritmica essenziale e utilizza la forma canzone; spazzole rallentate per il finale, tutto molto “classico”. Simile sorte per Instant crush, nel quale però c’è un bridge elettronico a rischiarare gli intenti.

Per parlare di elettronica arriviamo a Touch e ai suoi panorami spaziali, suoni elettronici, beam e crescendo di vortici. Dopo il cantato c’è un bridge orchestrale, tromba, flauto, poi violini e coro. Qui la sperimentazione è più decisa.

Motherboard ha una lunga introduzione ritmico-melodica, bridge futurista con suoni crepitanti, squagliati, spaziali, cristallini, la scansione ritmica varia per poi tornare a quella iniziale con una chiusura gocciolante.

Finalmente (è il caso di dirlo) nelle ultime tracce compaiono i vecchi Daft Punk. Doin’ it right, forse il brano più caratteristico, spicca per le scelte di contrappunto melodico, con due temi intrecciati e circolari. Contact si caratterizza invece per la ricorsività del riff di fondo, pur se sopra un ritmica rock, poi per la continuità di un organo a canne che si autosostiene fino alla “granulazione” del suono, impastato nei propri riverberi e nell’annichilimento finale.

Un disco a doppia faccia, insomma, teso al futuro e al suo superamento. C’è una sorta di latenza, e latitanza, del puro spirito Daft Punk originario. Tutto cambia, giustamente, compresi i Daft Punk, e noi siamo qui per annotare i cambiamenti. A volte, quando tutto il nuovo è terminato, bisogna guardare indietro. “Tornate all’antico, e sarà progresso” scriveva Giuseppe Verdi nel 1871.

07/06/2013 Federico De Carli

Se il progressive diventa sinfonico

Solar power dei Lost World

Quarto lavoro per la band russa
Lost World - Solar Power|

|

|

|

|

|

|

|

|

|

A volte conciliare la musica moderna, se non addirittura contemporanea, con quella che comunemente chiamiamo musica classica sembra un’impresa velleitaria o quantomeno avanguardistica. Invece i russi Lost World riescono pienamente nell’intento coniugando gli studi di conservatorio (dove si sono conosciuti) con quegli interessi più propriamente afferenti alla sfera del rock in un certo senso colto, quale è l’ambito progressive.

La band è, nella sua essenza, un quartetto quasi cameristico: Andy Didorenko (violini, chitarre, basso, tastiere, voce), Vassili Soloviev (flauto), Alexander Akimov (tastiere, programmazione e ingegneria del suono) e Konstantin Shtirlitz alla batteria “classica”, neoacquisto necessario per dare un’impronta più rock alla compagine. Ci sono inoltre vari ospiti che contribuiscono alla creazione di questo magico amalgama sinfonico/cameristico che appoggia degnamente i piedi nel rock. I riferimenti più facili sono dunque King Crimson, Kansas, Shostakovich.

E’ un album immediato, non sembra esserci un grande lavoro di arrangiamento e questo probabilmente è un bene; quasi come fosse una registrazione live in studio. La musica sgorga pura dalle menti e dalle mani; il lavoro di post-produzione ha pensato in seguito anche all’individuazione delle tracce dove queste non sono evidenti, mancando spesso i gap di silenzio fra un brano e l’altro. Ma questo è frequente nella musica progressive.

Il primo ascolto colpisce per l’eterogeneità degli aspetti affrontati e per le intuizioni che balenano dietro ogni angolo non espressamente voltato: accenni, suggerimenti, apparizioni fugaci che ci si aspetta siano foriere di spiegazione. E invece non sempre queste sono necessarie, anzi; la loro assenza fa sì che ogni spunto tematico non diventi leitmotiv, se non in episodi isolati, come nel brano introduttivo Voyage, dove la singola idea viene sviluppata per accrescimento grazie a molti stacchi, bridge, variazioni.

Sembrerebbe dunque una musica d’ascolto, d’intrattenimento. Agli ascolti successivi invece si nota l’esplosione del particolare, la ricerca del dettaglio e la definizione di ambienti acustici definiti e spesso differenziati; come quando si assaggia un vino complicato, i sapori escono fuori un po’ per sorso.

Nota di rilievo è l’uso della voce. Ci sono tre canzoni propriamente dette, alcune già presenti in lavori del passato ma qui riarrangiate, la voce è dotata di particolare presenza scenica nel panorama acustico complessivo (Metamorphoses/Solar power) oppure immersa in un ambiente etereo con una melodia faticosamente tracciabile di sapore Marillion (Facing the rain), o ancora la delicata e equilibrata Your name, ricca di paesaggi situazionali e modulazione nel finale.

Spazio alle chitarre, sia synth che acustiche. In Detached è una synth guitar a porre domande, poi a fare un monologo; a rispondere la sua omologa acustica, finché l’insieme non si scompone in una struttura spezzata, dove piccole monadi vanno a comporre un tutto più grande. In Your name c’è una intro di acustica con suoni sinusoidali, in Voyage e Run that by me again si intuisce il chitarrismo ipertecnico degli anni ’80. Spesso poi a imitare/doppiare la chitarra è il violino, persino distorto o con il tipico bending chitarristico (Solar power, Swept off) o quello quasi tzigano con il sapore dei brani di Django Reinhardt (At the waterfront).

Chiaro l’uso delle dissonanze, da quelle che annichiliscono la rassicurante melodia introduttiva di Voyage a quelle di At the waterfront; tutte tese a destabilizzare una classica richiesta di conformità alle regole. Cambiare tutto per poter tornare all’origine.

E poi, la ritmica. Dal walking bass di Run that by me again, al basso synth, incalzante sui quarti, di Solar power, a quello quasi melodico di Nothing; la batteria dalla scansione metronomica sui piatti ancora in Nothing e quella serrata in Tongues of flame.

La melodia spesso è sacrificata sull’altare della coerenza; manca un climax, il respiro è corto. Ma la forza melodica rialza la testa in Metamorphoses/Solar power, coppia ininterrotta di brani. E’ melodia unica, profonda, che alza bastioni intorno a sé, blindandosi all’interno di una cittadella fortificata; niente entra e niente esce, tramite aggiunte successive si autoevolve autarchicamente. E basta a sé stessa.

29/05/2013  Federico De Carli

Miami di Brandt Brauer Frick

Quando la scuola classica incontra la modernità

Miami di Brandt Brauer Frick

Il trio berlinese che suona l’elettronica con approccio acustico

Brandt Brauer Frick - Miami

|

Brandt Brauer Frick è il nome del grupppo, ma sono anche i cognomi dei tre componenti: Daniel, Jan e Paul, rispettivamente. Sono di Berlino e al loro terzo lavoro.

Se si tenta il paragone tra quest’ultimo lavoro e il precedente Mr Machine del 2011 si potrebbe rimanere spiazzati: non c’è più l’ensamble di undici elementi perché è rimasto il puro trio, non è più musica da teatro ma in qualche modo siamo tornati dentro un dj set, e poi è venuto meno quel sapore di free-jazz e di musica contemporanea che avevamo ascoltato due anni fa. Musica meno intellettuale, più diretta e meno mediata dalla ricerca di un significato profondo. Una sorta di assenza rigenerativa, un esperimento nell’esperimento.

Non manca, comunque, la dicotomia colto-extracolto. L’orecchio non è strizzato tanto al connazionale Stockhausen (se non per rispetto e interesse culturale) quanto ai lavori di John Cage, del quale ritroviamo molte cifre stilistiche. Dunque: più che alla scuola tedesca (o europea, per estensione) viene preferita quella minimalista statunitense.

Una caratteristica su tutte: se crediamo di essere nell’ambito della musica techno elettronica, va presa in considerazione l’idea che però gli studi classico-musicali dei tre componenti qui ritornano tutti. Ciò che l’elettronica crea con la macchina subisce invece ora una ri-creazione con l’ausilio di strumenti “reali”, fisici. Anche se, di fatto, non manca una componente “meccanica” nelle elaborazioni.

E poi, la forma: abbandonata l’istanza intellettiva vista in precedenza, questo lavoro si compone di tracce che spesso appartengono alla forma-canzone, anche quando si tratta di pezzi strumentali, forse anche grazie alla ricorsività di alcuni temi e delle loro variazioni. Quando poi (e succede per metà delle tracce presenti nel disco) si tratta di vere canzoni, la cosa si manifesta in maniera evidente. Anche se poi non ci si deve aspettare una struttura standard di canzone; qui la variazione può ribaltare il tema originario, per cui ci si può trovare davanti a un brano composto da sezioni strutturalmente disgiunte.

Cinque gli ospiti vocali che hanno collaborato alla registrazione delle dieci tracce: sono Erika Janunger, Om’Mas Keith, Jamie Lidell, Nina Kraviz e Gudrun Gut, voci dalle caratteristiche completamente eterogenee. C’è il rytm&blues di Empty words dove la voce sorvola un tappeto che sembra originato da due vecchie pendole fuori sincrono, stonate, o meglio ”diversamente accordate”. Ancora: la voce bluesy in Broken Pieces con ritmo incalzante e basso sinteticamente corposo, oppure ancora quella di Verwahrlosung che ripete incessantemente il titolo svicolando fra cellule minimali dissonanti e suoni di pianoforti pizzicati, alla maniera di Cage, mescolati a suoni industriali di martellate di fabbro.

L’intero lavoro parrebbe dipanarsi sulla linea del concept album, anche considerando i titoli del primo (Miami Theme) e ultimo brano (Miami Titles), accomunati dall’uso di cellule melodiche ricorsive e cluster percussivi di pianoforte; in realtà è difficile scorgere un elemento in grado di accomunare le varie diversità dei dieci brani. Nemmeno Miami drift aiuta a trovare la rotta di un viaggio improbabile, che deve per forza essere interiore; l’intro è lieve, quasi russo classico, poi l’atmosfera cresce fino a divenire cupa, da sountrack ipnotica.

Ocean drive (Shamane) risalta per essere pezzo di techno minimalista, impulsiva e compulsiva. Moduli percussivi vengono sovrapposti, ripetuti, incalzanti e sincopati, sopra due accordi a comandare il tutto, come in un brano modale.

Plastic like your mother è canzone dalla ritmica delicata, quasi un controcanto al canto della la voce in stile hip-hop. Stessa ritmica, ma più precisa e rigorosa, in Skiffile It Up che sfrutta anche un’onda quadra in funzione di basso. Ritmica ancora diversa in Fantasie Mädchen, dove è tribale e ricorsiva, ipnotica, quasi da trance sciamanica.

Disco complesso, questo lavoro dei Brandt Brauer Frick, ma può essere considerato una buona intersezione fra musica seria e musica d’intrattenimento. Nasce dall’esterno e si protende verso l’orizzonte interno; è musica infinita.

 19/05/2013 Federico De Carli

_________________________________________________

The man who died in his boat, la musica nebulosa di Grouper

_________________________________________________

Nuovo lavoro per Liz Harris

The man who died in his boat, la musica nebulosa di Grouper

L’arte imperturbabile di una one-(wo)man-band

 Grouper - The man who died in his boat

|

Quando si parla di musica sperimentale ogni definizione può risultare riduttiva, oppure eccessiva, al tempo stesso. A maggior ragione con The man who died in his boat, ultimo lavoro di Grouper, la parola ineffabile sembrerebbe la più appropriata. Indescrivibile, appunto, risulta essere l’ambito, l’ambiente e forse anche l’intenzione con la quale la musica di Liz Harris viene proposta alle nostre orecchie.

Tentiamo allora una lettura interpretativa di quest’ultima opera; la collaborazione che l’artista ha avuto, nel 2006, con Xiu Xiu potrebbe aggiungere all’etichetta generica di experimental quella ancor più vaga di avanguardia. Sebbene altre similitudini si possano trovare nei lavori di High Places, o Beach House, molte sarebbero le parole chiave da attribuire a The man who died in his boat.

Il titolo, intanto. Riguarda un’esperienza infantile dell’autrice, quando con il padre si imbatté in una barca alla deriva, il cui timoniere era andato disperso in acqua. Un ricordo lontano, così lontano da assomigliare a un sogno, per sua natura contraddistinto da contorni di estrema indefinitezza.

Musica del sogno, quindi: questa potrebbe essere una possibilità per classificare un panorama sonoro etereo, indistinto ma non necessariamente confuso. C’è l’indeterminazione di un ascolto con le orecchie immerse nell’acqua, dei suoni di filastrocche lontane nello spazio e dimenticate nel tempo, voci di cantilene, allungate al punto da non potersi concedere guizzi melodici.

Parlare di armonia è impossibile, di melodia è difficile; di ritmica però si può, a partire dallo strumming, cioè la plettrata sulla chitarra che presenzia l’intero album. E’ strumming timido, mai protagonista, essenziale, effettuato sempre dall’alto verso il basso e su posizioni accordali che non sempre concordano pienamente con la apparente melodia. Però è molto efficace, a volte privo delle componenti più alte (Vital) in modo da ottenere un sorta di basso-bordone (STS), altre volte più diradato (Towers).

La grande quantità di risonanze crea un effetto di straniamento, l’evocazione si fa materiale con l’utilizzo di echi sovrapposti. Come un canto di sirena che provenga da lontano, fluttuante e rarefatto, la voce appare sempre in secondo piano, o forse anche oltre; come provenisse dall’interno di una nuvola e in essa galleggiasse, non sembra presente, è voce remota che si concretizza quanto un suono dell’Eden. Dream pop, si dirà. Però è voce quasi mai melodica, impossibile ricordarla, cantarla o fischiettarla, tranne forse in Cloud in places: negli altri casi si autosostiene, è strumento, è sibilo nel vento che parte distante e viene filtrato opportunamente in modo da togliere ogni possibile spessore.

Molto viene demandato all’ascoltatore, parte integrante della rappresentazione acustica. Alcune visioni sonore sono spesso soltanto suggerite, in maniera imperturbabile e asettica, innocente, come una silhouette che per determinare i dettagli ha bisogno di maggiore quantità di luce (interiore e personale).

La ritmica è dettata, come detto, dallo strumming stesso; però si attua anche un abile gioco di sovrapposizioni vocali, di echi e riverberi che con i loro ritardi determinano una naturale pulsione, mantenendo in alcuni casi la voce ancor più lontana (Being her shadow), in altri l’elevato numero di ripetizioni dell’eco e il lungo tempo di decadimento fanno sì che l’eco stesso si attorcigli e si arrotoli su di sé, inglobando tutto in un buco nero acustico, voce compresa (Difference).

Suoni off, rumoristica digitale, vento e onde del mare servono a dipingere il paesaggio. Anche il suono dei polpastrelli sulle ruvide corde metalliche della chitarra non viene eliminato in sede di mixaggio; ricorda molto da vicino lo stridio dei gabbiani.

Ma non solo i suoni controllano la descrizione del paesaggio paradisiaco: l’evanescenza e la rarefazione si palesano nelle grandi praterie di silenzio in Vanishing point, a partire dall’intro remoto di tastiera distorta, evocativo, fino al ronzio sordo, lungo e conclusivo che conclude il pezzo. E’ il suono del silenzio.

 05/05/2013  Federico De Carli